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Esistente almeno dal 1550, ha ospitato un maglio, e poi contemporaneamente un torchio per la spremitura delle noci, un mulino per le farine, un forno per il pane e una casera. Dall'attività di questi opifici decine di comunità della Valle Brembana hanno ricavato per secoli i beni della propria sussistenza: farina gialla e bianca, miglio, olio da alimentazione e per l'illuminazione, formaggio e pane. Un vero laboratorio dalla cui attività dipendeva la sopravvivenza di intere famiglie. Quassù arrivavano da tutta la valle per far macinare farine e spremere noci, miste sovente a nocciole. Dopo secoli di attività ora le ruote del mulino e il torchio che schiacciava le noci sono fermi, il locale della casera pericolante e i muri dell'edificio crepati. Tutto però, all'interno, sembra rimasto come una volta. Quasi che l'ultima persona che ha fatto funzionare quei delicati attrezzi sia uscito una sera senza sapere di dover rientrare mai più. Le ruote del torchio e le macine capaci ancora di girare. Gli attrezzi del maglio e del mulino appoggiati nelle cassette. Ovunque recipienti, pezzi e ricordi di un tempo ormai perduto. L'ultimo che, fino a sei anni fa, ha fatto girare il mulino per ricavare farina gialla a uso domestico è stato Maurizio Gervasoni, membro della famiglia che da secoli ha la proprietà del torchio. Ora ne è proprietaria la moglie Giovanna Locatelli, erede sarà il figlio Mattia, oggi studente 15enne. Per arrivare al torchio-mulino si raggiunge località Oro di Baresi. L'ultima casa è proprio quella della famiglia Gervasoni che dall'alto sembra custodire e vegliare sul mulino. Dall'abitazione si scende per 200 metri di sentiero raggiungendo così l'antico edificio che ospita il torchio, immerso nella Valsecca. Alcune piante di noci vicino al sentiero ricordano l'attività che veniva svolta nel torchio. Sopra l'ingresso un affresco: una Madonna con bambino che tiene in mano una specie di anfora (forse contenente olio) mentre a destra è raffigurato un albero di noce. A terra, sulla sinistra dell'ingresso, c'è una grossa pietra lavorata che forse faceva da contrappeso dell'antico maglio. Dentro non c'è nessuna finestra che lasci entrare uno spiraglio di luce; è buio pesto, rotto solo dalla lampada che permette di vedere un vero e proprio tesoro per la storia rurale. Il mulino per la farina, con le due macine di pietra perfettamente funzionanti, porta la data del 1674; ci sono ancora setacci, palette e contenitori pronti all'uso. In fondo all'edificio quello che molto probabilmente era il forno per il pane. Ma il pezzo più importante dell'intero complesso è sicuramente rappresentato dal torchio per le noci: un complicato sistema di ruote (quella grossa e verticale che dava il via al sistema veniva mossa da un uomo che vi camminava all'interno) consentiva di ottenere olio di noce, utilizzato come alimento oppure per l'illuminazione. I panetti ricavati dalle noci servivano per l'alimentazione dell'uomo o degli animali. Sul grosso legno che sorregge la vite mobile del torchio è riportata la data del 1672. Nel resto dell'edificio ci sono pezzi di ruote in pietra o in legno, altri strumenti di lavoro, per il maglio o la macina. Una vera officina con tutto il necessario, ancora oggi, per poter ritornare in funzione. Un locale adiacente al principale ospitava invece una casera: c'è ancora il tavolo con gli scolatoi, dove veniva lavorato il latte. In terra catene di ferro e i bracci della teleferica che veniva utilizzata per fare arrivare al mulino la legna. All'esterno la ruota principale del mulino è ancora utilizzabile: basterebbe sistemare il canaletto che portava l'acqua dalla valle vicina. Il torchio-mulino è stato recentemente visitato dal direttore scientifico del museo di storia dell'agricoltura di Sant'Angelo Lodigiano che lo ha definito un vero monumento. Ma, cosa più importante, il 19 dicembre scorso, la Soprintendenza ai beni ambientali e storici ha vincolato l'intero edificio, quale «bene storico d'importanza generale», compresi i terreni circostanti. Eventuali scavi, infatti, potrebbero riportare alla luce nuove sorprese.
Testo di Giovanni Ghisalberti
Il FAI (Fondo per l'Ambiente Italiano) ha scelto il Mulino di Baresi come "luogo del cuore" da restaurare e da adibire a museo da affidare all'associazione "Maurizio Gervasoni". Il 17 novembre 2005 al Casinò di San Pellegrino è stato illustrato il progetto di restauro, ospite il sindaco della città Vittorio Milesi. Tra i relatori, oltre al sindaco di Roncobello Antonio Gervasoni, la presidente del FAI Giulia Maria Mozzoni Crespi e l'amministratore delegato di Banca Intesa Corrado Passera. Tutti si sono dati appuntamento il prossimo giugno per l'inaugurazione, quando Mattia, il più giovane della famiglia Gervasoni, da sempre proprietaria del mulino, ripetendo l'antico gesto dei suoi avi riaprirà la chiusa dell'acqua, e la ruota del mulino tornerà ancora a girare.
Il mulino del cuore è tornato a splendere!
Il Grande Vecchio della Val Brembana è tornato a sorridere. Dieci anni di solitudine lo avevano logorato, ma ora il mulino di Baresi è salvo ed è di nuovo in piena salute grazie al Fai, il Fondo per l'Ambiente Italiano. Ieri (22 luglio 2006) in questo splendido angolo di Baresi, piccola frazione (quaranta anime) di Roncobello, in provincia di Bergamo, l'inaugurazione del mulino è stata un piccolo evento. Non poteva essere altrimenti, ben 1300 persone avevano infatti indicato questo sito nel 2003, nel corso dell'operazione Fai «I luoghi del cuore», il primo censimento per salvare i monumenti più amati dagli italiani. E il mulino aveva conquistato il secondo posto. Un legame profondo unisce la piccola comunità al mulino, sin dal 1672, la data incisa sulla trave interna che ha visto passare intere generazioni. A partire dai Gervasoni, la famiglia che dal seicento ne è la proprietaria. Il mulino oggi è proprio intitolato a Maurizio Gervasoni, l'ultimo mugnaio che fino al 1996 ha macinato il grano per la farina da polenta. E all'associazione Maurizio Gervasoni il Fai ha consegnato le chiavi del mulino, dopo averlo acquisito e restaurato grazie alla cordata Banca Intesa, Gruppo Italcementi, Fondazione Bergamasca Onlus, Sanpellegrino, Montello Spa, Percassi. «Il Fai - ha detto Marco Magnifico, amministratore delegato culturale - ha oliato una ruota che si era fermata: ora la affidiamo di nuovo alla collettività». Il restauro conservativo (curato dall'architetto Leonardo Angelici) ha utilizzato sabbie e materiali del luogo e ha rigenerato la struttura. Ora i meccanismi e gli ingranaggi sono nuovamente in La grande ruota può ricominciare a girare, accolta da un applauso. E a raccontare storie di un'altra epoca. Di giorni in cui «la chiave del mulino era fuori sotto un sasso quando noi non c'eravamo - come dice la signora Teresa Bonetti, 77 anni, madre di Maurizio Gervasoni - e la gente apriva la porta per lasciare le pannocchie da macinare; c'era grande fiducia». Un mulino da fiaba? «Altro che fiabe - continua - si faceva tanta fatica, con i sacchi sulle spalle lungo la mulattiera». La struttura accoglie anche un forno per il pane, una "casera" per il formaggio e il torchio per le noci, quest'ultimo chiuso nel 1926, quando la finanza pose i sigilli e mise le manette ai polsi di Carlo Gervasoni che non dichiarò quanto olio di noce avrebbe prodotto quell'anno. Il Ministro per i Beni e le Attività Culturali ha definito il mulino «un'importante testimonianza materiale di un bene di valore demo-antropologico». Un luogo del cuore. Da quattrocento anni. Testo di Giorgio Contessi
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